di Pietro Lo Conte

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Il Prologo

Panorama della città di Ariano Irpino (AV)

Era uno dei soliti pomeriggi afosi di agosto. Il 6 agosto 1993, per la precisione. Ad Ariano Irpino, una tranquilla cittadina del sud Italia, il suono dolce delle cicale dominava incontrastato il palcoscenico della natura, mentre tutto il resto del mondo, almeno quello che a noi interessava, era completamente in balìa di un’apatia da record.

Come diceva la canzone di Gino Paoli “eravamo quattro amici al bar, che volevano cambiare il mondo, destinati a qualche cosa in più che a una donna ed un impiego in banca…”. Eravamo quattro ragazzi, Giuseppe, Gianluca, Massimo e il sottoscritto, quattro maschietti di belle speranze, tante speranze ma pochi soldi.

Non ricordo a chi venne per primo l'idea ma probabilmente ci assalì la voglia, contemporaneamente e all'improvviso, di fare qualcosa di inedito, di avventuroso, di memorabile. Qualsiasi cosa pur di spezzare la noia, ma senza esser costretti a svuotare le nostre già miserevoli tasche. Eravamo disposti a qualsiasi cosa pur di passare il tempo in una maniera inedita, sorprendente, eccitante. Qualsiasi cosa piuttosto che "itta’ prete rind’a lu fuosso di la Maronna di l’Arco"[1].

[1]Buttare sassi nel fosso della Madonna dell’Arco”, burrone di Ariano Irpino (AV) adibito a discarica.

Avevamo soltanto due strumenti a disposizione: la possibilità di prendere in prestito un’auto, una vecchia Golf 2^ serie diesel, di proprietà dell’azienda del papà di uno di noi, e una carta geografica dell’Europa, premio di anni di pieni di carburante, sempre fatti da uno dei nostri papà, presso i distributori della Esso.

A quell’età, inoltre, gli ormoni andavano a mille e i nostri ragionamenti, i nostri discorsi, le nostre ambizioni erano pressochè monopolizzati da un unico pensiero fisso: conoscere belle ragazze, magari straniere, magari ben disposte, magari…

Non importa chi ebbe per primo l’idea, ma sta di fatto che in pochi minuti tutti e quattro eravamo già al lavoro per organizzare la partenza.

Obiettivo: "Capo Nord".

Soltanto a ripetere queste due magiche parole la nostra eccitazione raggiunse livelli impensabili. Allora erano soltanto parole, qualcosa che avevamo sentito pronunciare in TV, in qualche documentario di Piero Angela, letto su un libro di geografia, sognato ascoltando l’epico racconto di qualche amico più navigato.

La parte più eccitante di un viaggio, spesso, sono proprio i preparativi. Ci si lascia trasportare dall’immaginazione, si lascia andare la mente a fantasticare su improbabili magiche
avventure. Con la fantasia, soprattutto alla nostra età di allora, tutto è possibile, anzi sicuro.

Che bella squadra! Da sinistra: Pietro, Giuseppe, Gianluca e Massimo

Non avevamo immagini nella nostra mente, non avevamo ancora focalizzato cosa potessero essere il sole a mezzanotte, i fiordi, le renne. Non sapevamo che differenza ci fosse tra Danimarca e Svezia, tra Norvegia e Finlandia e soprattutto non avevamo idea di cosa e dove fosse la Lapponia.

Non c’era ancora internet a offrirci in anticipo, su un piatto d’argento, con Google Map, Street View, Expedia e TripAdvisor qualche piccolo assaggio del fantastico scenario che ci avrebbe aspettato, né potevamo provare ad organizzare per tempo le nostre tappe, per sincronizzare i tempi o le scadenze da rispettare.

Avevamo soltanto una lontanissima idea di cosa ci avrebbe aspettato nei giorni successivi, ma in fondo non ci interessava più di tanto. L’unica cosa certa era che si sarebbe trattato di un viaggio molto lungo, niente di più.

Eravamo come bambini, che si ritrovavano tra le mani un giocattolo curioso, di cui non riuscivano ancora a capire il meccanismo, ma che sapevano, per uno strano intuito tutto infantile, che in ogni caso si sarebbero divertiti un mondo.

Ci imponemmo massimo 24 ore di tempo per controllare il livello dei liquidi dell’auto, riordinare le idee, salutare i nostri parenti, amici e amanti, e pensare a tutto quanto ci sarebbe
stato utile per il viaggio.

Già. Cosa poteva essere definito “utile”? Cosa era indispensabile mettere in valigia? Le prime stime fatte grossolanamente, ad occhio, ci posero subito davanti alla cruda realtà. Non c’era molto da scegliere. Il budget di tempo e di denaro a nostra disposizione era quello che era, non più di 500.000 lire a testa, a naso circa 300-350 euro di oggi, da spendere al massimo in un paio di settimane. Dovevano bastare per tutto, benzina, autostrada, pernotti, vivande, traghetti e quant’altro. Insomma dovevano bastare per tutto quanto fosse stato ritenuto indispensabile allo scopo, tra previsti e imprevisti, o almeno, se non altro, per garantire la nostra sopravvivenza.

L’intenzione per almeno i 2/4 del gruppo era di evitare quanto più possibile alberghi e ristoranti. Per il vitto avremmo utilizzato scorte alimentari, ottenute svuotando il frigo e la credenza della mamma. Invece per la notte avevamo in dotazione una piccolissima tenda canadese, di quelle poco più grandi di ‘nu taùto [n.d.r. una cassa da morto] dove si riusciva a stento ad entrare in due. Per dormire avremmo fatto a turno, alternandoci tra la tenda e l’auto.

Il nostro mezzo di trasporto

Non si erano ancora diffusi i telefonini e soprattutto non c’erano ancora i navigatori GPS. Inoltre, non avevamo neanche l’autoradio in macchina. Avevamo l’incoscienza dei nostri vent’anni, o poco più, e tanta voglia di vedere il mondo. In fondo era sufficiente, avevamo esattamente quanto ci bastava.

Ci procurammo soltanto un paio di informazioni utili: il numero di telefono di un mio prozio emigrato in Germania circa 30 anni prima, non si sa mai, magari era di strada, e una lista aggiornata degli ostelli e dei campeggi della Scandinavia, trovata per pura fortuna, qualche settimana prima, in una libreria del centro di Roma.

Pensate come sarebbe improponibile oggi, intraprendere un viaggio in una maniera così sprovveduta. Ma quanto era eccitante! Il pomeriggio del giorno successivo, tra l’incredulità, lo scetticismo e la preoccupazione di parenti e amici, partimmo con un pensiero fisso in mente: “ma queste svedesi … saranno proprio così come le descrivono?”.

Si parte

da Ariano Irpino a Celle (Germania)

Come stabilito, partimmo il 7 agosto. Decidemmo di intraprendere la nostra avventura di pomeriggio, in modo da evitare le ore più calde della giornata, almeno nella tratta italiana, e si rivelò idea buona e giusta perché, guarda caso, la nostra auto era anche sprovvista di aria condizionata.

L’ansia di partire, l’eccitazione generale e le aspettative per tutta la situazione che si stava creando erano immense e le prime ore del viaggio letteralmente volarono. Ci facemmo trasportare, quasi senza accorgercene, direttamente al Brennero.

L’equipaggio era ben organizzato. Ci alternavamo alla guida ogni due-tre ore, a rotazione. Ruolo principale, naturalmente, era quello del pilota, ma non era secondario anche quello del passeggero che gli  stava  seduto  accanto che, prendendo in prestito la terminologia dal mondo del rally, battezzammo “il navigatore”. Il navigatore era infatti importantissimo. Egli aveva il compito, anzi, il  “dovere” di rimanere sveglio e soprattutto tenere sveglio il pilota, oltre naturalmente controllare che la rotta fosse quella prestabilita. La responsabilità della riuscita dell’impresa dipendeva principalmente da lui. Gli altri due dietro potevano riposarsi, anzi erano caldamente consigliati a farlo, per preservare le energie per il loro turno.

Tra noi c’era anche un’ulteriore equa distribuzione  dei compiti. C’era chi teneva i conti, chi parlava inglese, chi allacciava relazioni sociali, chi fissava gli obiettivi giorno per giorno, chi sognava e chi teneva tutti con i piedi per terra. C’era chi azzardava previsioni meteo e chi aveva un particolare senso dell’orientamento. C’era anche chi aveva sempre fame e chi invece non voleva mai fermarsi a mangiare… ma ne riparleremo più tardi.

Per quanto riguarda l’itinerario, a dire la verità, non  c’era molto di prestabilito. Orientativamente cercammo di seguire il percorso più breve, sul nostro caro atlante della Esso, scartando naturalmente itinerari che apparivano troppo lenti o alternativi. Il nostro scopo primario era raggiungere la meta prima che finissero i soldi e le energie. Pertanto evitammo tutte le possibili perdite di tempo e cercammo, nel possibile, di evitare di passare per i grandi centri urbani e il traffico cittadino, a meno che non avessero particolari attrattive dal punto di vista turistico o “strategico”.

Scoprimmo che esistono delle strade che attraversano tutta l’Europa e che vengono contraddistinte con la lettera E. Ad esempio seguendo la E45 si parte da Gela, in Sicilia, e si arriva direttamente a Karesuando, nella lontanissima Svezia.

Durante la notte attraversammo di slancio entrambi i confini dell’Austria, quello sud con l’Italia e quello nord con la Germania, ed alle 6 del mattino dell’8 agosto, di domenica, eravamo a Monaco di Baviera.

La prima impressione che avemmo, la mattina all’alba, fu senz’altro positiva. Si trattava di una bella città, non c’era nulla da dire, anche se immaginammo che in autunno, per l’Oktoberfest, potesse offrire il meglio di sé. Comunque vista alle 6 del mattino, con un viaggio di circa 12 ore alle spalle, assunse un sapore particolare.

La temperatura era scesa vertiginosamente, come se attraversando le Alpi avessimo saltato un’intera stagione, passando all’improvviso, in una sorta di transfer spazio- temporale, dall’estate all’inverno. Questa strana sensazione ci accompagnò per l’intero viaggio.

Le nostre fantasie di ragazzotti italiani, appena messi i piedi all’estero, comiciarono a prendere forma. Notammo una signora distinta, biondissima, che indossava apparentemente soltanto una pelliccia, dalle splendide gambe lunghe e tacchi a spillo, attraversare con passo molto veloce una delle piazze principali della città. Credo fossimo in Max Joseph Platz. Nel silenzio surreale di quella enorme piazza, il ticchettìo dei suoi tacchetti ci colpì direttamente nel cuore. In effetti, più che recarsi in ufficio, alle 6 del mattino di una fresca domenica d’estate, avemmo la forte sensazione che stesse fuggendo, magari da una notte di passione… chissà!

Monaco di Baviera (Germania)

Fatta colazione con le nostre scorte ancora intatte, a base di fette biscottate e marmellata, ci addentrammo nella Baviera.

Le autostrade tedesche sono fantastiche. Come noto, in molti tratti non ci sono limiti di velocità. Sembra il paese dei balocchi per gli automobilisti più esigenti. Si può spingere l’auto finché si vuole e l’unica preoccupazione è non fondere il motore. Ai nostri occhi di classici italiani apparentemente senza regole, tutto era consentito. In realtà per noi, sinceramente, oltre a non voler rischiare di rimanere appiedati, c’era anche un’altra preoccupazione, quella di non consumare troppo carburante.

Pertanto ne approfittammo, sì, ma senza esagerare. Bisogna ammettere, tuttavia, che le autostrade in Germania sono state costruite per l’alta velocità: hanno un  asfalto impeccabile, curvoni larghi e pendenze tali da compensare perfettamente la forza centrifuga dei tornanti.

Seguendo la E45 arrivammo all’ora di pranzo a Norimberga, per i tedeschi Nürnberg. La città, nota per il famoso processo ai criminali nazisti, fu completamente distrutta dagli alleati e pazientemente ricostruita dopo la guerra.

Norimberga (Nurberg - Germania)

Gran parte dei suoi antichi palazzi sono stati rimessi in piedi esattamente identici agli originali, tanto da non riuscire a notare facilmente la differenza. Fu una bella sorpresa passeggiare per le strade del centro e scoprire scorci molto interessanti. La cattedrale è incantevole, particolarmente suggestiva, in stile gotico. Durante la nostra visita potemmo ascoltare qualche brano del sermone domenicale che il pastore, con un’aria fortemente severa stava tenendo dal pulpito. Sembrò di rivivere per un attimo l’atmosfera austera della riforma Luterana del ‘500.

Ci fissammo l’obiettivo del giorno. Visto che era effettivamente di strada, decidemmo di andare  a  trovare quel mio famoso zio, anzi “nostro” visto che era parente anche di Giuseppe, che ci risultava vivesse in una cittadina dal nome curioso: “Celle”.

Scoprimmo che la città di Celle si trovava a nord, vicino Hannover, e che, anche se non ci avrebbe costretto a deviazioni eccessive, era ancora molto lontana. Mangiammo in fretta qualche panino con gli insaccati e i noti latticini arianesi, che avevamo scoperto ancora commestibili, e che avevamo conservato nei nostri zaini e in una borsa frigorifera. Ci rimettemmo in viaggio.

A distanza di tanti anni non ho ancora capito  come riuscimmo a trovare, con sorprendente facilità, la villetta di mio zio. Allora non c’era il TomTom e neanche i cellulari. Non avevamo molte informazioni né eravamo in grado di intraprendere lunghe discussioni, da una cabina telefonica, per districarci su itinerari complicati in lingua tedesca. Incredibilmente ci riuscimmo e fummo veramente soddisfatti e sollevati quando, senza troppi tentativi, suonammo ad un campanello sul cancello di una tranquilla villetta e sentimmo una voce amica che si rivolse a noi in un italiano perfetto: “buonasera”!

Siamo in Scandinavia

Da Celle (Germania) a Goteborg (Svezia)

Mio zio, anzi prozio, visto che era fratello di mia nonna, fu veramente ospitale. Da quando era partito per la Germania, proprio come noi, con tanta voglia di fare e pochi soldi … ne aveva  fatta  di  strada!  Aveva  una  bellissima  villetta,  stile americano, con un grande backyard, un infinito numero di stanze e addirittura in bagno c’era persino la sauna! Non ci sembrò vero. Finalmente ci potemmo ristorare, ritemprare, rinfrescare e riposare dopo circa 24 ore di viaggio ininterrotto.

Passammo la serata, tra uno sbadiglio di stanchezza e sprazzi di autentica curiosità, ad ascoltare i racconti dello  zio.  Ci parlò della sua vita avventurosa, delle incredibili esperienze che aveva maturato in vari angoli dell’Europa, delle pizzerie che aveva aperto e dei gusti alimentari davvero discutibili dei suoi clienti tedeschi. Malgrado, a suo dire, fosse molto bravo a fare la vera pizza napoletana, quella che andava per la maggiore era condita con le banane e qualche  fetta d’ananas!

La mattina successiva era il 9 agosto. Me lo ricordo benissimo perché era il mio compleanno. Devo ammettere di non aver mai festeggiato in un clima come quello che scoprimmo appena ci affacciammo alla finestra della nostra stanza, una mansarda molto accogliente tutta di legno. Se non fossi stato certo della mia ricorrenza non avrei creduto ai miei occhi: in un’atmosfera ovattata da una nebbia molto fitta, un’aria gelida e tipica tardoautunnale, si intravedevano dei bambini che, zaino in spalla, si recavano allegramente a scuola. Era il 9 agosto!

Riflettemmo molto, in quei giorni, su questa strana gente del nord, che mangia pizza con banane e ananas  e preferisce andare a scuola quando tutti partono per le vacanze…

Salutammo lo zio e la sua simpatica moglie tedesca e ci rimettemmo in viaggio. L’itinerario  prevedeva  due alternative, puntare  dritto  verso nord  per prendere un traghetto nel punto più settentrionale  della  Danimarca oppure deviare a est verso Copenaghen e poi continuare lungo la costa   occidentale della penisola scandinava.

Optammo per la prima scelta, riservandoci la capitale danese per il ritorno.

Appena entrati in Danimarca avemmo  la  netta  sensazione che stessimo varcando la soglia di un mondo completamente diverso. Il paesaggio era ancora quello prevalentemente piatto tedesco, ma il clima fu subito avverso. Una pioggia a dirotto, un autentico muro d’acqua, ci accompagnò fino alla città di Frederikshavn, nell’estremità nord della penisola danese, dove ci fermammo ad aspettare la partenza del traghetto.

Il Porto di Oslo

Malgrado le pessime condizioni atmosferiche,  ho  un bellissimo ricordo di quelle poche ore che ci servirono per attraversare la Danimarca.

Sin dall’ingresso in Germania, ogni  volta  che varcavamo la frontiera di un nuovo Stato, avevamo preso la bellissima abitudine di fermarci al Welcome Center, per cambiare qualche spicciolo, comprare una scheda telefonica, chiedere informazioni turistiche.

Quando entrammo nel Tourist Information Office danese rimanemmo tutti e quattro completamente estasiati. A ricevere i turisti e a fornire le informazioni, c’erano le due più belle ragazze che avevamo mai visto. Non so cosa chiedemmo loro, probabilmente gli orari dei traghetti per la Svezia, e soprattutto non ricordo assolutamente cosa risposero, ma il loro sorriso e i loro splendidi occhi azzurri non li dimenticheremo mai. Fu veramente un ottimo modo per darci il benvenuto in Scandinavia!

In effetti, anche se apparentemente sembra un territorio completamente a se stante, la Danimarca è già parte integrante della Scandinavia. Esistono le stesse regole, lo stesso comportamento della gente, lo stesso stile di vita, potremmo dire la stessa civiltà della popolazione scandinava. Allora, nel lontano 1993, in Scandinavia vigevano leggi che da noi arrivarono molto più tardi. Un esempio per tutti, per quanto riguarda la circolazione stradale, erano già obbligatorie da tempo le cinture di sicurezza e gli anabbaglianti accesi anche di giorno. Naturalmente non c’erano le solite eccezioni che invece abbiamo in molte zone dell’Italia.

Per molti aspetti, durante tutta la nostra avventura, ci sembrò di intraprendere un viaggio nel futuro. Ma non si trattava di un futuro come siamo abituati ad immaginarlo o a vederlo nei film di fantascienza, altamente tecnologico, avveniristico, freddo, asettico, ma  di un futuro in cui certi valori, come la tutela dell’ambiente, delle espressioni culturali, la valorizzazione e il rispetto dell’infanzia e delle persone portatrici di handicap, vengono naturalmente prima di tutto. Allora, vent'anni fa, a quelle latitudini, tutto questo era già una realtà fortemente consolidata.

Passeggiando per le strade di Oslo

Ma torniamo al nostro viaggio. Dopo un paio d’ore d’attesa nel  porto  di  Frederikshavn,  finalmente  salimmo  sul  primo degli innumerevoli traghetti che ci avrebbero accompagnati lungo tutto il nostro viaggio.

Il mare era piuttosto mosso, ma fortunatamente arrivammo prima che i nostri stomaci cominciassero a protestare.

Toccammo la terra svedese piuttosto tardi, credo fossero le 9 di sera, a Goteborg, e ci rendemmo subito conto che non sarebbe stato facile trovare un posto per trascorrere la nottata. Era troppo tardi per cercare monete locali, le corone svedesi, per pagarci una stanza d’albergo ed eravamo troppo stanchi per cercare  alternative  più  economiche, praticamente “no cost”.

Allora tirai fuori dal mio zaino la famosa “guida degli ostelli e campeggi scandinavi” e fu per noi un’autentica salvezza. Cominciammo a girare, stanchissimi, per le strade deserte di Goteborg, ed al terzo tentativo trovammo un ostello che ci aprì la porta. Sinceramente credo che ad aprirci fu uno degli ospiti dell’ostello. Con nostra sorpresa  non  avemmo  il piacere di incontrare nessun gestore.

Quel ragazzo ci fece entrare e, con un gesto un po’ scocciato, ci mostrò dei letti a castello ancora liberi e scomparve. Era un ambiente piuttosto angusto, buio, non particolarmente sporco, ma con uno strano odore che impregnava l’aria. Non riuscivamo a capire cosa potesse essere.

Qualche minuto più tardi, mentre srotolavamo i nostri sacchi a pelo, un po’ sospettosi e impauriti ma ormai rassegnati a passare la nottata con un occhio chiuso e l’altro aperto, scorgemmo il nostro amico seduto accanto ad altri ragazzi, dietro una tenda semiaperta.

Erano tutti concentrati, nell’intento di accendersi una “canna”, e capimmo che l’odore veniva dal “fumo” intenso prodotto da lui e dagli altri suoi amici. La stanchezza e l’atmosfera un po’ “mistica” che si era creata presero il sopravvento e crollammo stremati.

Ricordo che l’ultima mia azione cosciente di quella sera fu di mettere al sicuro il portafoglio, nella parte più remota del sacco a pelo, con la flebile speranza di ritrovarlo ancora, il giorno dopo.

La Norvegia

Da Goteborg (Svezia) a Trondheim (Norvegia)

Il giorno successivo, era il 10 agosto, ci alzammo di buon’ora. Nessuno ci presentò il conto, ringraziammo in silenzio il governo svedese per la sua estrema generosità e ci rimettemmo in cammino. Goteborg è una bella città universitaria, piena di giovani e, probabilmente, di modi di divertirsi. Il ricordo più forte che conservo è un colore: un verde intenso, con mille sfumature, che era presente in ogni angolo della città. Città dominata dalla presenza dell’acqua, potenzialmente ci ha dato l’impressione di offrire molto, ma non abbiamo avuto sufficiente tempo da  dedicarle.  Se dovessi, un giorno, ripetere il viaggio, probabilmente mi ci soffermerei più a lungo.

Il trasferimento da Goteborg ad Oslo fu abbastanza rapido, anche se la strada tra le due città fu l’unica a presentarci una lontana forma di qualcosa che si  potesse  definire  traffico. Non particolarmente intenso, ma continuo e ordinato.

A conferma della forte identità comune dei paesi che costituiscono la Scandinavia, nella sua globalità,  già  allora non incontrammo frontiere tra uno Stato e l’altro. Proprio com’è oggi da noi nell’ambito dell’area Schengen. Tuttavia, la valuta era diversa e ogni volta che entravamo in un nuovo paese ci toccò cercare un ufficio cambi e sprecare inutilmente parte delle  nostre  preziosissime  scorte finanziarie, per pagare le onerose commissioni. Questo fatto ci limitò parecchio.  Praticamente, fummo costretti a riorganizzare le nostre  tappe,  per sincronizzare i nostri spostamenti con gli orari di apertura degli uffici e delle banche.

Una costante che trovammo ovunque, fu l’estrema diffusione della lingua inglese. Tutti parlavano e capivano l’inglese perfettamente. Persino le vecchiette che incontravamo per strada con le buste della spesa, al ritorno dal mercato. Alle nostre frequenti domande, soprattutto per individuare l’itinerario ottimale da seguire,  trovammo  molte  occasioni per rivolgerci a passanti casuali. Ottenemmo sempre risposte estremamente educate, in un inglese comprensibilissimo. Credo che uno dei motivi principali sia il fatto che tutto ciò che trasmette la TV è in lingua originale, eventualmente con i sottotitoli in svedese o in norvegese. Non esiste il doppiaggio e la gente è abituata ad ascoltare gli stessi film e telefilm americani che vediamo noi, ma con l’audio originale.

Tipico paesaggio norvegese: i fiordi

Arrivammo ad Oslo in tarda mattinata e provammo ad addentrarci nella città, per conoscerla un po’ più a fondo. La zona del porto è molto carina, con dei giardini dai quali si osserva un apprezzabile panorama. Scoprimmo uno dei primissimi centri commerciali così come al giorno d’oggi ne abbiamo tanti nelle nostre città. Bisogna tener presente che a quei tempi, da noi in Italia, c’erano solo la Standa e l’Upim. Ad Oslo, invece, scoprimmo un edificio immenso, multipiano, con scale mobili che si intrecciavano ovunque. Tra l’altro era anche  un  bellissimo  esempio  di  architettura  moderna.  Il nostro esperto Gianluca, allora studente di architettura a Pescara, ci diede la sua conferma.

Purtroppo non riuscimmo a comprare nulla. Il costo della vita era, e mi risulta che lo sia ancora, altissimo. I prezzi al dettaglio erano inavvicinabili. Anche la frutta sui banchi dei pochi ambulanti che trovammo per strada sembrava bella, ma il prezzo proibitivo ce ne sconsigliò l’acquisto.

Così tornammo a rovistare tra le nostre scorte e riuscimmo a pranzare ancora una volta con le cose che avevamo al seguito: grissini con tonno e carne in scatola e l’immancabile fetta biscottata con la marmellata. Naturalmente non tutti i giorni mangiammo così poco. Le nostre scorte, tra l’altro, finirono ben presto. Allora ci venne incontro il solito McDonald’s che, a prezzi modici, ci garantì uno stomaco sazio, in cambio di poche corone. Lo stomaco ci ringraziò, il fegato un po’ meno, ma per una decina di giorni, nell’arco di un’intera vita, qualche eccezione si può anche fare.

Visto quello che potevamo di Oslo, decidemmo di trascurare la città di Bergen sulla costa occidentale, che ci avrebbe spinti troppo lontani rispetto all’itinerario stabilito. Invece puntammo dritti verso nord. Passammo per Lillehammer, città che, a distanza di pochi mesi, si sarebbe trovata al centro delle attenzioni mondiali, infatti ospitò le olimpiadi invernali del 1994. En passant, riuscimmo ad intravedere le strutture e gli impianti di risalita, ormai già pronti, e un bellissimo palazzetto del ghiaccio.

Al contrario di quelle tedesche, le strade  norvegesi  erano fatte per andare piano. Il limite di velocità non superava mai i 100 km/h e comunque, anche volendo, non si riusciva ad andare più veloci. Anche le statali più importanti, come la E6 che prendemmo dopo avere lasciato la E45 appena fuori Goteborg, non permettevano di fare agevoli sorpassi e tutti rispettavano i limiti senza eccezioni.

Malgrado le più che probabili e frequenti gelate dei lunghissimi inverni scandinavi, il manto stradale era sempre perfetto.

Ogni 4 o 5 chilometri c’era un’area di ristoro, dove era possibile sgranchirsi e andare in bagno. Per chi viaggiava in camper c’erano tutti i servizi essenziali, come la ricarica dell’acqua, naturalmente gratuiti. Soprattutto i bagni pubblici ci sorpresero ogni volta. Erano sempre ordinati e pulitissimi, come se ogni volta fosse passata la donna delle pulizie, soltanto pochi minuti prima.

Il paesaggio comincia a cambiare

Occorre inoltre tener presente che ogni bagno era sempre diviso in  “uomini”, “donne” e “disabili”. Avemmo l’impressione che le classiche barriere architettoniche, in Norvegia, non fossero mai esistite.

In serata arrivammo finalmente a Trondheim. La città è una delle più grandi della Norvegia. Ha una bellissima cattedrale, probabilmente la più bella della Norvegia. In classico stile romanico-gotico, fu il luogo dove per molti secoli avvenivano le incoronazioni dei reali di Norvegia.

La cosa che mi rimase più impressa di quella chiesa fu  il grande rosone centrale, dai mille colori. Trondheim è situata all’interno di un enorme fiordo che, nel nostro itinerario, fu il primo di una serie infinita.

I fiordi. Un capolavoro della natura. Sono tutti spettacolari, una genesi continua di scenari mozzafiato. Un bellissimo matrimonio di elementi, tra terra e mare, un connubio mistico di colori, tra il verde e l’azzurro. L’acqua del mare, all’interno dei fiordi, è sempre calma, placida, rasserenante. Proprio perché la furia del mare aperto non riesce ad incanalarsi più di tanto, nei fiordi si creano dei microclimi che apparentemente sembrano appartenere a  latitudini senz’altro più meridionali.

Altro panorama di fiordi norvegesi

Quella sera Giuseppe, il più affamato del gruppo, ci impose una cena un po’ più sostanziosa, un piatto unico con salmone fritto e patate. Ci ristorammo, finalmente, ma perdemmo tempo prezioso e non riuscimmo a trovare un posto decente per passare la notte. Allora ci rassegnammo a pernottare in auto, in un parcheggio dove avemmo la compagnia di altri 4 o 5 camper.

Ogni giorno che passava, ogni migliaio di chilometri che percorrevamo verso nord, diventava sempre più difficile vedere le stelle. Il cielo quasi sempre nuvoloso e la vicinanza al circolo polare artico riempirono di un chiarore surreale anche le nostri notti insonni.

Ci addormentammo osservando il cielo e Trondheim dall’alto, un panorama molto romantico. Senza dubbio uno spreco per noi quattro, uomini e stanchi.

Il Circolo Polare Artico

Da Trondheim (Norvegia) a Narvik (Norvegia)

Il nostro quarto giorno, l’11 agosto, fu veramente spettacolare. Il maltempo ci risparmiò un po’, ed avemmo la possibilità di ammirare e goderci un panorama assolutamente indescrivibile.

Più ci avventuravamo verso nord, lungo la E6, sempre meno avvertivamo la presenza dell’uomo e della civiltà. La natura prese decisamente il sopravvento. Paesaggi fantastici ci privarono letteralmente della parola.

L’impressione più paradossale che ci colpì fu che il paesaggio, il clima, la vegetazione, sembravano d’alta  montagna, mentre eravamo incredibilmente al livello del mare. Anzi, dietro ogni curva, il mare era sempre lì, freddo, immobile e silenzioso, ma sempre a portata di mano. Era adagiato ad accarezzare, come una enorme mano dolce e delicata, una successione infinita e serpeggiante di spiagge di ciotoli.

La strada cominciò ad essere tortuosa ma rimase pianeggiante. A volte credemmo di essere sulla costiera amalfitana, in una tranquilla giornata assolata d’inverno.

I fiordi erano infinitamente grandi  e numerosi. Ce n’erano alcuni che si insinuavano per decine e decine di chilometri all’interno della penisola e, per fare pochi metri in linea d’aria, eravamo costretti a percorrere anche cento chilometri di tornanti. Più di una volta fu più conveniente prendere il traghetto, sempre disponibile, veloce ed  economico, piuttosto che fare tutto il giro. Ne contammo e utilizzammo una decina in tre giorni.

Tra Trondheim e Narvik ci fermammo un paio di volte, per sgranchirci le gambe e rilassarci, ma spesso stoppammo all’improvviso l’auto per immortalare qualche scorcio particolarmente interessante.

Per documentare la nostra impresa mi ero attrezzato con una telecamera VHS-C, acquistata da poco più di un anno, regalo che mi  ero fatto personalmente, per la mia laurea. Filmini che purtroppo non potrò mai più vedere, a meno che non mi metta d’impegno, tempo e voglia, per convertirli in digitale. Giuseppe aveva una macchinetta kodak usa-e-getta, niente di più. Le foto che allego a questo racconto sono proprio tratte dal suo album e scannerizzate per l’occasione. Non c’erano le formidabili attrezzature digitali, sensori da decine di migliaia di pixel, che oggigiorno sono persino già incorporati nei telefonini, da poche decine di euro, che tutti abbiamo  in tasca. Non riuscimmo, pertanto, a documentare in maniera adeguata tutto quanto riuscimmo a vedere e vivere in quella decina di giorni. Almeno non quanto meritassero quegli splendidi scenari. Tutto ciò che ci resta è racchiuso nei nostri ricordi, impresso per sempre nella retina dei nostri occhi.

Riflessi sul Mare del Nord

Facemmo  sosta  a  Namsskogan,  dove scattammo  una  delle classiche foto da perfetti turisti fai-da-te, sotto al cartello che indica le distanze da alcune città europee. Roma era ormai a 3101 km, ma ci sorprese la distanza da Nordkapp, 1372 km, ancora troppo lontana, soprattutto considerando la nostra velocità di crociera, già al limite del consentito, dal codice della strada e dalla nostra capacità di resistenza alla fatica.

Attorno a noi c’erano molti anziani, qualche motociclista, parecchi camperisti. A proposito di camperisti, ne incontrammo un paio italiani. Erano del nord, Brescia o Bergamo, non ricordo, e stavano tornando a casa. Misteriosamente, ci dissero di essere ”soltanto” arrivati al Circolo Polare Artico e di essere poi tornati indietro. Strano… ci chiedemmo, uno fa tutta ’sta strada per arrivare fin qui… e poi si gira a poco più di mille chilometri dalla meta. E’ un po’ come arrivare a un mese dall’esame di maturità e all’improvviso ritirarsi dagli studi, non ha senso!

In realtà, riflettendoci un po’ su, Capo Nord, “Nordkapp” per i locali, era la “nostra” meta, non la loro, ma non riuscimmo a comprenderli ugualmente.

La tappa successiva fu proprio il Circolo Polare Artico, il “Polarsirkelen”. Non credevamo ai nostri occhi. Avevamo di fatto raggiunto uno dei nostri obiettivi parziali. E’  un  po’ come quando giochi con quei videogames in cui, se passi di livello, anche se perdi una vita, hai la possibilità di ripartire dal nuovo livello, risparmiandoti la noia di ricominciare tutto dall’inizio. Avevamo superato il nostro primo livello e la gioia era insostenibile. Anche qui scattammo la foto di rito. Faceva freddo, cominciammo a vedere sprazzi di neve negli angoli più all’ombra.

Al centro turistico allestito sulla linea immaginaria del Circolo Polare Artico, pagando, è possibile farsi rilasciare una pergamena, con tanto di timbro e ceralacca, che attesta il raggiungimento dell’obiettivo: il parallelo 66° 33' 38" Nord. Naturalmente noi non ce lo lasciammo scappare. Forse non tutti sanno cosa significhi. Praticamente a partire da questa latitudine in su, per almeno un giorno all’anno, in estate, il sole non sorge né tramonta. E’ possibile, pertanto, assistere al mitico spettacolo del sole a mezzanotte. Tutta la parte del globo al di sopra del circolo polare si chiama calotta polare ed ogni  paese attraversato  da  questa linea  ha  allestito  un centro d’attrazioni turistiche sul tema. Ne  avremmo incontrato un altro, al ritorno, in Finlandia.

Una breve tappa a Namsskogan (Norvegia)

Visto che vediamo spesso in queste foto le nostre facce, forse è giunto il momento di descrivere un po’ più a fondo il nostro equipaggio. Devo dire che raramente, nei miei numerosi viaggi, ho condiviso momenti così sereni e divertenti, come quelli trascorsi con Giuseppe, Gianluca e Massimo. La riuscita di un viaggio, spesso, dipende più dai nostri compagni d’avventura, che dall’evoluzione del viaggio in sé. Con lo spirito giusto, con l’atmosfera giusta, ogni esperienza diventa indimenticabile. Non importa se costa sacrificio, stanchezza, soldi, ciò che conta veramente è stare bene con se stessi e con chi ci sta attorno. Allora tutto il resto è qualcosa in più, è tutto di guadagnato.

Il nostro gruppo era piuttosto eterogeneo ma compatto. Nessuno cercò mai di prevaricare gli altri, di imporre i propri vizi, i propri capricci, le proprie abitudini. Ci fidavamo l’uno degli altri, sapevamo che, pur rinunciando alle nostre comodità, avremmo raggiunto insieme il nostro obiettivo. Io ero il più maturo, come sempre, quello che conosceva le lingue, che aveva già viaggiato all’estero, che aveva sufficienti mezzi, soldi e carte di credito, per levare tutti dai guai, se ce ne fosse stato bisogno. Ma ero anche il più timido e riservato. Ero comunque quello che aveva le idee più chiare sull’itinerario e sugli obiettivi di ogni giorno.

Giuseppe, mio cugino, era  quello più preciso che, ricevuto l’itinerario, lo faceva rispettare alla lettera. A quel tempo era fidanzato ed aveva l’”obbligo” morale di chiamare spesso la ragazza, per questo motivo era l’oggetto continuo dei nostri sfottò, lo chiamavamo “telephone-man”. La sua principale occupazione quotidiana era trovare schede e cabine telefoniche. Era anche quello sempre affamato, pur essendo il più magro del gruppo, evidentemente il suo metabolismo bruciava in fretta qualsiasi cosa mangiasse e le sue crisi di fame furono frequenti. Grazie a lui, comunque, qualche volta avemmo la possibilità di sederci al ristorante e gustare qualche sapore locale, un altro modo per fare la conoscenza di una civiltà così distante dalla nostra. Noi due eravamo senz’altro i più seri e coscienzosi.

Un primo traguardo: il Circolo Polare Artico (Polarsirkelen)

Gli altri due, amici da sempre di Giuseppe, almeno dai tempi della scuola, erano i più pazzerelli del gruppo.

Soprattutto Gianluca, malgrado la sua  piccola  statura,  era una vera forza della natura. E’ quella persona che ritrovi un po’ in tutte le comitive, quello sempre allegro, con la battuta pronta, che riesce a tirarti su nei momenti di sconforto. Nel gruppo era anche quello che risolveva i piccoli problemi all’italiana, con estro, ingegno e un  po’ di astuzia. Ci fece impazzire quella volta, ad esempio, che riuscì  a  procurarci una tazza di tè caldo a testa, senza dover pagare il conto, soltanto servendosi di quanto veniva offerto  gratis  sui banconi dei bar.

Ed infine c’era Massimo, anche lui molto sveglio, intelligente e simpatico, forse soltanto un po’ pigro. Era il bello della compagnia, quello che mettevamo avanti quando c’era da avvicinare una ragazza… poi, naturalmente,  intervenivo  io per fare la traduzione e allora era uno spasso  totale.  Tra doppi sensi voluti e spontanei, coscienti e non, i nostri dialoghi con quelle divertitissime e biondissime fanciulle erano degni dei migliori spettacoli di cabaret.

In realtà, con le ragazze, non si arrivava mai a niente, al massimo strappavamo i loro nomi. Ci accontentavamo di fare quattro chiacchiere e per noi era già più che sufficiente per scatenare la nostra fantasia e i nostri giovani ormoni.

Comunque dobbiamo ammettere che in quella  terra avevamo un discreto successo. Eravamo seri e giudiziosi, ma estremamente simpatici, proprio come loro  si  aspettavano che fossimo. In fondo quattro ragazzotti mori italiani in Scandinavia facevano la loro bella figura. Facevano lo stesso effetto che avrebbero fatto quattro biondissime svedesi sulle spiagge nostrane.

Suggestiva immagine delle scogliere norvegesi

In serata arrivammo a Narvik, come al solito veramente stanchi. Trovammo un campeggio molto bene organizzato. Piuttosto che montare la tenda, che ricordo si trattava di una minuscola  canadese,  troppo  piccola  per  tutti  e  quattro, optammo per il bungalow, uno chalet di legno, non molto spazioso, ma  caldo e accogliente.  C’era  persino un piccolo televisore che trasmetteva un film italiano in lingua originale e sottotitoli in norvegese, che non riuscimmo ad identificare.

Ci fu soltanto il tempo per fare una caldissima doccia rilassante e crollammo esausti ciascuno nel proprio letto, finalmente. E’ inimmaginabile quanto si possa apprezzare un materasso e una rete dopo quasi quarantotto ore di auto.

Missione compiuta

Da Narvik (Norvegia) a Nordkapp (Norvegia)

Recuperate le nostre energie, l’unico obiettivo del nostro quinto giorno fu: arrivare a Capo Nord prima della mezzanotte.

In realtà avevamo molte ore a disposizione e ne approfittammo per ammirare ancora una volta le meraviglie che la natura ci offrì lungo la strada. La parte più settentrionale della Norvegia è senz’altro la più attraente. E’ la Norvegia dell’immaginario collettivo, un continuo alternarsi di monti a strapiombo sul mare, dove l’incontro tra terra e acqua acquista un significato surreale, quasi magico. La luce del giorno, che in estate dura quasi 24 ore, non è mai eccessiva, è un continuo tramonto (o alba, a  seconda  dei punti di vista) con un tiepido sole che insiste immobile all’orizzonte colorando di tinte calde ogni cosa.

E’ evidente che ci si trovi in una posizione estrema, ai limiti del mondo. Tutto è puntato verso sud, a conferma della caparbia insistenza a voler attingere all’unica sorgente di energia proveniente dall’orizzonte, il sole. Persino le antenne paraboliche, nei dintorni delle case, moderni girasoli, sono incredibilmente inclinate verso il basso quasi a toccare terra.

Viene da pensare cosa possa significare l’inverno a quelle latitudini, la lunghissima stagione delle tenebre, sei mesi di totale assenza di tutto ciò che significa sorgente di energia e di vita.

I rari centri abitati che si incontrano lungo la strada sono assolutamente incantevoli. Sono i classici villaggi di pescatori che abbiamo visto in mille film e documentari, con le tipiche casette di legno, minuscole e coloratissime.

Ovunque, soprattutto a nord di Narvik, si incontrano i classici hjell, le strutture di legno, a forma di tetto spiovente, dove viene messo ad essiccare il merluzzo, noto anche con il nome di ”stoccafisso”. A differenza del baccalà, per conservare il pesce nei paesi del nord, non viene usato il sale, ma soltanto l’aria fresca e secca di quelle latitudini.

Ci avvicinammo a questi mausolei della tradizione ittica nordica con grande rispetto e curiosità. Quasi fossero luoghi sacri da venerare. Il forte odore acre ci riportò alla mente sapori ormai dimenticati.

La strada E6 percorre tutta la costa e permette di insistere su questi fantastici scenari senza mai stancare, non ci si annoia mai, ogni scorcio è unico e regala prospettive da sogno.

La magia di questi luoghi è fortemente legata alla cultura popolare, alle leggende, ai trolls, i folletti che dominarono la mitologia vichinga per secoli e che periodicamente tornano di moda anche dalle nostre parti. Passioni che talvolta vengono alimentate dai prodotti del cinema e della letteratura fantasy.

Il famoso stoccafisso norvegese

Naturalmente oggi è tutto diventato commerciale, pertanto si trovano tantissimi negozi di souvenir, stracolmi di statuette dalle orecchie a punta e simboli che ricordano storie e leggende dei tempi in cui i vichinghi, veri predoni del mare, scorrazzavano e saccheggiavano, riparandosi poi nelle infinite baie naturali offerte dai fiordi.

Pranzammo all’altezza di Alta, l’ultima città che si possa definire tale. Non le dedicammo molta attenzione, ormai il nostro pensiero era orientato soltanto verso nord, verso Capo Nord. Capimmo di essere ormai prossimi alla meta quando abbandonammo la E6 e ci immettemmo sulla E69.

Rimanemmo piuttosto sorpresi, e il nostro senso dell’orientamento fu messo a dura prova, quando all’improvviso il mare si spostò da sinistra a destra, rispetto alla nostra direzione di marcia.

Arrivammo abbastanza presto all’ultimo traghetto, prima di mettere piede sull’isola di Nordkapp. Prima di intraprendere questo viaggio non sapevamo neanche che Nordkapp fosse un’isola. Anche se viene considerato il punto più a nord del continente… in realtà si tratta di un lembo di terra staccato dal continente stesso! Allora, nel 1993, non c’erano altri mezzi per raggiungere l’isola oltre al traghetto. Oggi, l’ho scoperto di recente, c’è un tunnel che permette di arrivarci direttamente in auto, quindi, in effetti, oggi si può considerare meno isola di un tempo.

Anche quest’ultimo traghetto fu efficiente, pronto, rapido, economico e funzionale. Una delle cose che ci rimase più impressa della Norvegia fu proprio la puntuale e capillare diffusione dei traghetti. Non dovemmo mai attendere più di 15-20 minuti per passare da una costa all’altra di un fiordo e anche i prezzi, che per noi erano importanti e ci facevamo caso, non furono mai proibitivi.

Sbarcammo ad Honnisvaag, il centro abitato più grande dell’isola, che il sole era ancora sufficientemente alto, anche se faceva capolino fra le nuvole e non sempre era visibile.

Lungo il contorto itinerario che ci portò all’estremità settentrionale dell’isola incontrammo soltanto un altro villaggio di nome Valan. Sull’isola ci imbattemmo in alcune renne, le prime, che tuttavia non riuscimmo a fotografare in tempo prima che sparissero tra i cespugli.

Non si può descrivere la gioia, la sentita e sincera soddisfazione, che provammo quando avvistammo l’edificio che rappresenta l’estremità più settentrionale  del continente. In fondo si tratta del solito centro per turisti, niente di più, ma denso di significato. Di per sé Capo Nord può anche deludere. Non è altro che un altissimo pezzo di roccia a strapiombo sul mare, un promontorio che si eleva fino a circa 300 metri di altezza. Su quest’area, oltre al Visitor Center, sono stati costruiti tre monumenti che ricordano la latitudine raggiunta: 71° 10' 21" Nord.

Honnisvaag (Norvegia) e l'isola di Nordkapp

Il primo monumento, il simbolo più noto di Capo Nord, rappresenta il globo terrestre, stilizzato, in acciaio, in cui vengono evidenziati soltanto meridiani e paralleli. La classica foto ricordo ai suoi piedi è d’obbligo, come è d’obbligo riprendere il panorama dell’intero promontorio, magari con il cielo infuocato sullo sfondo e quel mappamondo che sembra rappresentare, più che l’estremo nord, il centro stesso dell’universo.

Il secondo monumento è costituito da una serie di cerchi di bronzo e pietra che raffigurano simboli di pace, che risale alla fine degli anni ’80 ed è dedicato ai bambini del mondo.

Il terzo è costituito da una freccia di una bussola che indica da che parte si trova il nord. Naturalmente, in questo incredibile paradosso della natura, il punto indicato dalla freccia coincide con il punto verso cui ci si deve rivolgere per ammirare il “sole di mezzanotte”.

Il centro turistico è molto moderno, praticamente si tratta di un museo che racconta le storie dei primi esploratori che osarono addentrarsi fino a quelle latitudini. Ricordo che curiosamente il primo uomo che mise piede su quella terra, intorno alla metà del ‘600, fu un monaco italiano. Molto interessante fu un filmato tridimensionale che ci permise di vedere come si trasforma tutta la zona nei mesi invernali, tra la neve, il ghiaccio e la lunga notte che dura sei mesi.

Un'altra foto ricordo a Capo Nord

Ma il nostro sogno era vedere dal vivo il sole di mezzanotte. Ad essere onesti, non ci riuscimmo completamente. Eravamo in ritardo di un paio di settimane, infatti il sole di mezzanotte a quelle latitudini, può essere visto soltanto nei mesi di giugno e luglio. Comunque il chiarore diffuso tipico delle ore a ridosso del tramonto e dell’alba non ci abbandonò mai. Anche a mezzanotte, infatti, tutto era perfettamente visibile. La foto che ho messo in copertina fu scattata proprio allo scoccare dell’ora 0:00 tra il 12 e il 13 agosto. Ad ogni modo fu uno spettacolo unico osservare la magica sfera infuocata che lentamente si inabissava all’orizzonte, per poi riapparire, circa mezz’ora dopo, a poca distanza, un po’ più a destra. In quella mezz’ora avemmo un’impressione strana, come se avessimo spostato velocemente in avanti le lancette della nostra vita.

Capo Nord e il sole di mezzanotte

Quella notte, che sembrava giorno, la vivemmo tutta intensamente. Tornammo ad Honnisvagg, all’estremità meridionale dell’isola, perché il  promontorio settentrionale di Nordkapp non offriva nulla di più. Fu straordinario vedere che la vita d’estate, proprio come il sole, non si ferma mai completamente. Anche alle prime ore del nuovo giorno, c’erano ovunque ragazzi, indigeni e turisti, che vagavano per le strade del villaggio, come sempre un po’ brilli, con la sola voglia di divertirsi. Quando fummo veramente esausti trovammo un bungalow libero in un campeggio nei dintorni di Honnisvaag e ci riposammo per qualche ora.

La Finlandia

Da Nordkapp (Norvegia) a Rovaniemi (Finlandia)

Recarsi  a  Capo  Nord  è  qualcosa  di  più  di  un  viaggio,  è un’avventura, una sfida con se stessi. La nostra esperienza ci ha mostrato che non si tratta certo di uno sport estremo, né occorre superare prove quasi impossibili, come attraversare il Sahara o la giungla amazzonica, però ti lascia comunque qualcosa dentro, una soddisfazione interiore che rimarrà sempre nel cuore, indelebile.

Sono tanti coloro che vi si recano con i mezzi più strani. Naturalmente il camper o la roulotte sono quelli più idonei e gettonati, se non altro perché la Norvegia offre tantissime “facilities” come campeggi e aree di sosta equipaggiatissime. Sono anche tantissimi i centauri, affascinati dai tornanti  a picco sul mare. Ogni tanto si vede anche qualche ciclo-turista a pedalare con lo zaino in spalla, comodo e fattibile perché non ci sono grandi rilievi da superare, anche se il clima può essere davvero l’unico nemico.

Da tutta Europa sono anche tanti coloro che arrivano in gruppo. Ne abbiamo incontrato uno molto numeroso, ad esempio, che veniva dalla Francia. Viaggiavano tutti in auto decisamente vecchiotte. Tra di esse scorgemmo, con  non poca sorpresa, anche alcune FIAT 500, completamente tappezzate di sponsors e con i motori truccati. Dev’essere un modo eccitante di viaggiare o, se non altro, molto divertente.

Gli italiani, come al solito, si dintinguono sempre. Per tutta la Norvegia ne avevamo incontrati pochissimi. Prevalentemente erano del Nord, Milano, Brescia, Piacenza, con campers grandi e attrezzati. Per tutto il viaggio di andata ci eravamo domandati che fine avessero fatto tutti gli altri italiani. Le mie precedenti esperienze, in giro per l’Europa, mi avevano fatto sempre incontrare numerosissimi italiani, invece stavolta sembrava una situazione completamente diversa. Eravamo veramente sorpresi e forse un po’ delusi da questa cosa. Invece, appena entrammo nel Tourist Center di Nordkapp, fummo letteralmente sommersi da una valanga di romani e napoletani, con il loro caratteristico e inconfondibile vociare animato. Ma da dove erano arrivati?

In effetti per chi volesse andare a Capo Nord, volendo evitare di fare tutta la strada, è facilissimo: basta prendere una serie di aerei che ti portano fino all’aeroporto più vicino, che credo sia ad Alta, e poi da lì con il pullman è un gioco da ragazzi! Che vergogna… Che gusto c’è? E’ come se uno volesse scalare il K2 e poi si facesse calare direttamente sulla vetta con un elicottero…

Una vecchia Fiat 500 a Capo Nord

Dopo l’abbuffata di Capo Nord, toccò rimettersi in viaggio per tornare a casa. Ma non avemmo la sensazione di aver terminato qualcosa, anzi, fummo subito coscienti che eravamo soltanto al giro di boa. In fondo Capo Nord era stata solo una scusa. Tutta quella strada non era servita solo a farci dare la solita pergamena che attestava il raggiungimento dell’obiettivo. L’attrattiva principale del viaggio era il viaggio stesso e questa nuova visione restituiva un valore assoluto anche e soprattutto al nostro itinerario di ritorno.

Decidemmo, pertanto, di evitare per quanto possibile di ripercorrere lo stesso itinerario dell’andata, per scoprire ogni giorno sempre cose nuove. Optammo per un percorso che avrebbe attraversato tutta la Finlandia da nord a sud.

Avevamo appena cominciato a scendere, puntando verso la Finlandia, quando ci imbattemmo in un branco di renne nelle vicinanze di un villaggio lappone. La Lapponia è una regione molto grande che si estende in tutta la parte settentrionale della Scandinavia e comprende alcune regioni della  Svezia, della Finlandia e della stessa Norvegia. I lapponi, da quelle parti, sono come gli indiani d’America. Chiusi in riserve, apparentemente vivono di pastorizia, con le loro immancabili renne, ma in realtà producono oggetti d’artigianato da vendere ai numerosi turisti di passaggio. Chi  si lascerebbe scappare un bel souvenir fatto dalle mani autentiche di un lappone?

Entrando in Finlandia, dalla moderna e civilissima Norvegia, restammo un po’ sorpresi. Per il forte contrasto, ci sembrò di tornare indietro nel tempo. Il paesaggio, le strade, la forma delle rare case, cambiarono totalmente. Ci sembrò di attraversare un invisibile muro, come quello che separava, ai tempi della guerra fredda, la Germania Est dalla Germania Ovest. Da una parte, più che la tecnologia, c’era il progresso, la civilità, mentre dall’altra parte c’era solo desolazione.

I primi chilometri in Finlandia ci sembrò di attraversare il deserto dell’Arizona. Una lunghissima strada, un rettilineo perfetto, che con andamento ondulante si addentrava nel cuore di un’arida steppa. Anche l’ingresso nel nuovo Stato ci sorprese, cogliendoci piuttosto impreparati. Non trovammo il solito ufficio turistico a darci il benvenuto e soprattutto non riuscimmo a cambiare i soldi, né a comprare le solite schede telefoniche per Giuseppe. Anche stavolta ci arrangiammo a mangiare soltanto qualche biscotto e un po’ di frutta che avevamo tenuto di scorta qualche giorno prima.

In serata arrivammo a Rovaniemi, una delle mete turistiche più note della Finlandia. Si tratta infatti della città, riconosciuta a livello mondiale, dove abita Babbo Natale. Non nascondo che tornammo bambini per qualche ora. Il villaggio dedicato all’omaccione vestito di rosso è fatto veramente bene. Non manca nulla, c’è persino un autentico ufficio postale. Bisogna sapere che, secondo una tacita convenzione riconosciuta in tutto il mondo, qualsiasi bambino voglia scrivere una lettera a Babbo Natale,  sa che se  la spedisce arriverà qui ed otterrà sempre una risposta. E’ sufficiente scrivere “a Babbo Natale” sulla busta e metterla nella buca delle lettere.

Un accampamento di Lapponi con relativo negozio di souvenir

L’ufficio postale è interessantissimo. Tra gli scaffali e le scrivanie è possibile scovare letterine scritte in tutte le lingue del mondo. Rovistando tra le montagne di corrispondenza, proprio su una delle scrivanie, trovammo una lettera scritta da una bambina genovese che chiedeva a Babbo Natale un vestitino, che aveva visto in un negozio del centro, era tenerissima! E’ possibile anche segnalare il vero indirizzo di un bambino, perché Babbo Natale possa scrivergli direttamente. Io ci provai e misi i dati del mio fratellino, che allora aveva 17 anni, tanto per vedere se Santa Claus avrebbe mantenuto la promessa. Tutto vero! Qualche settimana prima del Natale di quell’anno, mio fratello ricevette gli auguri nientemeno che da Babbo Natale in persona!

Naturalmente lo incontrammo, ma nessuno di noi aveva il coraggio di avvicinarsi. L’unico che superò la timidezza fu il solito Gianluca che si fece una foto con lui… e poi ne approfittò per fare altre foto anche con qualche sua bella e giovane assistente… ma questa è un’altra storia.

Conoscenze a Rovaniemi (Finlandia)

Quella sera la  temperatura era un po’ più alta, allora decidemmo di montare finalmente la tenda canadese. Nei giorni precedenti, infatti, il clima ci aveva sempre scoraggiato di perdere quella mezzoretta necessaria per issare i paletti e mettere in tiro la stoffa.

Per fare un’esperienza un po’ particolare la montammo esattamente sopra una striscia, disegnata per terra, che indicava il passaggio del parallelo che identifica il Circolo Polare Artico. Rovaniemi, infatti, è  l’equivalente  finlandese del sito che incontrammo qualche giorno prima in Norvegia. Dov’è un posto migliore per trascorrere la notte se non proprio, fisicamente distesi, lungo la linea del Circolo Polare Artico?

Per passare la notte ci organizzammo in questo modo: io e Giuseppe in tenda, Gianluca e Massimo in macchina. Voi direste: fortunati, tu e Giuseppe, a dormire in tenda… e invece no! I fatti ci dimostrarono il contrario.

Eravamo già nel mondo di Morfeo da un paio d’ore, quando aprii gli occhi e scorsi il mio inseparabile portafoglio che galleggiava all’altezza del mio naso. Ebbene sì,  galleggiava!

Praticamente stava diluviando e l’acqua era entrata prepotentemente nella tenda, allagandola completamente. Cercammo riparo picchiando sui vetri della nostra auto dove stavano beatamente dormendo i nostri due amici… ma loro non se ne accorsero, o fecero finta di non accorgersene. Giuseppe giurò di aver scorto uno dei due socchiudere un occhio, girarsi dall’altra parte e tornare a dormire! Begli amici!

Siamo a Helsinki

Da Rovaniemi (Finlandia) a Helsinki (Finlandia)

La mattina del 14 agosto, abbandonammo il Circolo Polare Artico e ci dirigemmo senza esitazione verso sud. La strada da Rovaniemi alla capitale Helsinki è un lunghissimo rettilineo che invita ad accelerare. I finlandesi devono essere dei grandi appassionati di motori, infatti spesso incontrammo auto da rally coi motori truccati, marmitte rumorosissime, spoilers improbabili,  tutte  tappezzate  da  adesivi coloratissimi. Evidentemente non sarà un caso che la Finlandia esprima tanti talenti tra i piloti di rally e formula 1 come Häkkinen, Räikkönen e Mika Salo.

Invogliati dalla strada, sollecitati dall’atmosfera sportiva e distratti dalla stanchezza di un’intera settimana di viaggio ininterrotto, cominciammo, senza accorgercene, ad accelerare un  po’ la nostra andatura. Ed  ecco che all’improvviso un’auto della polizia che veniva in  senso opposto ci intimò lo stop. In quel momento mi trovavo proprio io alla guida e non nascondo che cominciai a temere il peggio. Il poliziotto si avvicinò lentamente alla nostra auto ed esclamò: “you drive too fast!”. Naturalmente non trovavo le parole e balbettai qualcosa come “sorry, don’t understand”. Allora con grande pazienza prese un pezzo di carta e cominciò a scrivere, parlando un inglese perfetto e comprensibilissimo. Mi spiegò che in Finlandia, a differenza che in Italia, il limite massimo sulle strade statali è di 100 km/h mentre noi andavamo a 135 km/h. Poi mi spiegò anche il motivo. “Devi sapere”, mi disse, “che la velocità deve necessariamente essere bassa per la presenza di una pista ciclabile sul bordo della strada”. Infatti per almeno 300 degli 800 chilometri che separano Rovaniemi da Helsinki, la strada è costeggiata da una lunghissima corsia riservata alle biciclette, “non possiamo mettere a rischio la vita dei nostri bambini”, aggiunse. A questo punto ci aspettavamo una multa salata, il ritiro della patente o il sequestro dell’auto. Già ci vedevamo chiusi in cella ad attendere che i nostri genitori venissero a liberarci… e invece nulla di tutto ciò! Il poliziotto ci disse con un sorriso bonario: “Capito tutto? Allora potete andare ma, mi raccomando, andate piano”.

La Finlandia è un paese incredibile. Poco popolato come tutti i paesi nordici, ma strapopolato di zanzare. Ci sembrò di vivere una delle dieci piaghe d’Egitto. Per tutto il giorno, malgrado non piovesse,  fummo costretti a tenere  i tergicristalli in movimento per liberare il parabrezza dalle migliaia di zanzare che continuavano a spiaccicarvisi contro. Spesso dovemmo fermarci e dare un colpo più energico di spugna, ma questa operazione era difficilissima perchè non si riusciva a stare all’aperto senza esserne colpiti. Le solite fermate alle cabine telefoniche per Giuseppe furono  una vera sofferenza, avevamo l’impressione che proprio le cabine fossero gli ambienti preferiti di quegli insetti maledetti.

Uno dei tanti traghetti

Perchè questo fenomeno? La Finlandia è un paese che ha più laghi che terra ferma. Ce ne sono quasi  200.000!  Ci  sono zone in cui i laghi sono così numerosi che non si riesce a comprendere se si tratta di tanti bacini collegati tra loro o di un’enorme distesa d’acqua ogni tanto interrotta da isolotti. La strada che attraversa la nazione da nord a sud è praticamente un ponte lunghissimo, che saltella da un lembo di terra a quello successivo.

Il paesaggio non ha niente a che fare con quello norvegese, perché è tutto piatto, tipo la Pianura Padana, ma il contatto con la natura è molto rassicurante. I Finlandesi furono un’autentica sopresa. Simpaticissimi, con una parlata senza dubbio particolare, più simile all’ungherese che agli idiomi scandinavi di matrice anglosassone. E’ una bellissima melodia, sembra una cantilena, a volte ricorda cadenze esotiche, come se appartenessero all’estremo oriente.

Arrivammo ad Helsinki abbastanza presto. Ne approfittammo per trovare subito un posto per dormire e poi uscire per vedere come fosse il sabato sera finlandese. Tirai fuori il mio mitico manuale dei campeggi ed ostelli scandinavi e cominciammo a girare per la città in cerca degli indirizzi proposti. Arrivammo nella zona in cui fu allestito il villaggio olimpico per i Giochi di Helsinki 1952. Seguendo le indicazioni, l’indirizzo dell’ostello ci portò  direttamente dentro lo Stadio Olimpico! Non riuscivamo a capire. L’indirizzo dell’ostello e quello dello stadio coincidevano! Cominciammo a cercare all’interno della struttura e alla fine, effettivamente, lo trovammo. Frequentatissimo da ragazzi, l’ostello era anche piuttosto pulito e ben organizzato. Non ci facemmo scappare l’occasione unica di poter dire di aver dormito nello Stadio Olimpico di Helsinki!

Risolto il problema per la notte, ci recammo in centro. Non c’erano molte auto in giro, mentre c’erano tantissimi ragazzi a piedi. Più ci addentrammo nel cuore della città più ci rendemmo conto che succedevano fatti strani. Ovunque c’erano giovani, giovanissimi, completamente ubriachi che vagavano barcollando come zombie senza meta.

Ragazzine non più che quindicenni, con indosso soltanto camicette striminzite e minigonne, vomitavano ai bordi delle strade. Sembrava una scena di quei  film  sexy-horror  degli anni ‘70! Contemporaneamente c’erano file molto lunghe di ragazzi e ragazze composti, distinti ed elegantissimi, educatamente in attesa di entrare nei locali notturni, probabilmente birrerie o discoteche. C’era un contrasto inconcepibile.

Foto ricordo per Gianluca e Massimo

Ogni tanto sfrecciavano macchinoni in stile americano anni ‘50, decappottabili, con ragazze biondissime e bellissime, in abiti succinti, che schiamazzavano, urlavano  e ridevano agitando tra le mani bottiglie di birra. Osservando queste scene, invece, ci sembrò di vivere film come “La dolce vita”.

Continuavamo a non capire.

Il giorno successivo qualcuno ci spiegò l’arcano. Probabilmente per una politica antialcolista, le tasse sugli alcolici erano molto alte e bere era diventato un lusso per pochi. Soprattutto consumare alcolici nei locali più di moda era diventato proibitivo.

Pertanto le due principali classi sociali si distinguevano per una sostanziale differenza di comportamento: i ricchi erano quelli che facevano la coda per bere all’interno dei locali, i poveri erano quelli che compravano la birra al supermercato e si ubriacavano  a casa, prima di uscire. A fattor comune, comunque, non era previsto altro divertimento se non a seguito di una grande sbornia.

Mentre vagavamo con la nostra macchina per le vie del centro, e la nostra era una delle poche in questo scenario apocalittico, un’auto della polizia ci fermò ancora una volta. Che giornata! Visto che eravamo gli unici a muoversi in auto, probabilmente, pensammo, non avevamo visto qualche divieto, forse si trattava di un’isola pedonale… Invece il poliziotto, molto meno gentile del suo collega incontrato in mattinata, intimò a Massimo, che stava alla guida, di soffiare in un palloncino. Ci facemmo una risata! C’era un milione di persone ubriache che vagavano barcollando  e  vomitavano per la città e gli unici a cui stavano chiedendo la prova del palloncino eravamo noi che non vedevamo un bicchiere di vino o di birra da almeno 7 giorni!

Naturalmente ci lasciarono subito andare, ma dopo aver girato per la città abbastanza disgustati, la puzza di birra e vomito era ovunque, ci ritirammo presto ed andammo a dormire.

L’ostello, di notte, non era  poi così attraente com’era sembrato qualche ora prima,  soprattutto  dopo  aver assistito a quello squallore in centro.

Foto ricordo per Giuseppe e Pietro

Ma anche stavolta la stanchezza prese il sopravvento, in fondo i nostri portafogli ormai erano quasi vuoti e non c’era nulla da perdere, e ci addormentammo di sasso.

Stoccolma

Da Helsinki (Finlandia) a Stoccolma (Svezia)

La mattina del 15 agosto ci svegliammo piuttosto riposati. E fu una giornata completamente dedicata al riposo. Quel giorno, infatti, non percorremmo più di 170 km in auto. Facemmo un rapido giro a piedi sulla pista di atletica dello stadio Olimpico di Helsinki e ci rimettemmo in viaggio verso la città di Turku dove ci aspettava il traghetto della Viking Line che ci avrebbe condotti a Stoccolma.

In realtà fu una vera e propria crociera, che durò circa 10 ore in una splendida cornice di terra e di mare. Una meravigliosa giornata di sole ci permise di godere ed apprezzare un bellissimo panorama.

Facemmo così la conoscenza del Mar Baltico, un’altra regione europea completamente sconosciuta a noi, almeno fino qualche giorno prima. Nel tratto d’acqua che separa Turku da Stoccolma, che in linea d’aria saranno 200 km, si rincorrono tenendosi idealmente per mano decine di migliaia di isolotti. Un altro spettacolo della natura! Dopo i laghi finlandesi, così numerosi e ravvicinati, avemmo una sensazione simile e opposta. Anche questa volta, osservando quella infinità di pezzettini di terra semicoperti d’acqua, ci riuscì difficile capire se si trattasse veramente di tante isole o al contrario di terra ferma coperta casualmente da un’inondazione d’acqua.

Il grande traghetto fece un lentissimo e dolcissimo slalom in quell’enorme arcipelago. La nave era enorme e spesso tememmo che non riuscisse ad avere la giusta agilità per scansare tutti quegli ostacoli naturali. Si muoveva goffamente come un pachiderma in un negozio di cristalli. A volte avemmo l’impressione che fu quasi costretta a fermarsi per effettuare qualche manovra più delicata.

Durante la giornata, mentre oziavamo al sole, facemmo amicizia con uno svedese (ebbene sì, un  uomo,  putroppo) che ci raccontò tante storie interessanti legate a quelle isole. Ci spiegò che la maggior parte di esse non sono abitate, ma che da qualche anno era in corso una strana competizione, soprattutto tra i più ricchi svedesi, nell’acquistarne almeno una.

Ormai era un vero e proprio status symbol possedere un’isola nel Mar Baltico, come avere l’auto di grossa cilindrata o la barca a motore. Ce n’erano di tutte le forme e dimensioni, ma moltissime non erano più grandi di un paio di campi da basket. Erano tutte coperte da foltissima vegetazione e molte avevano un minuscolo porticciolo  per  l’attracco  di  una piccola imbarcazione. Al centro  di esse, quasi sempre, una gradevole abitazione di legno tipico del nord.

Sul traghetto da Turku (Finalndia) a Stoccolma (Svezia)

Insomma scoprimmo che i ricchi, a quelle latitudini, non si accontentavano di avere soltanto una villa al mare, ma ambivano a possedere un’intera isola!

Nessuno di noi quattro si può considerare un lupo di mare, avendo nelle nostre vene autentico sangue irpino, pertanto, dopo 10 ore di movimento ondulatorio, lento ma costante, fummo veramente sollevati quando attraccammo nel porto di Stoccolma… ancora qualche minuto e il nostro stomaco ci avrebbe fatto qualche brutto scherzo. Gianluca fu quello che ebbe la peggio e soffrì parecchio per tutto il viaggio.

Nel tardo pomeriggio giungemmo così nella capitale della Svezia. Stoccolma è una città fantastica. Senza dubbio la più bella e interessante di tutto il nostro viaggio in Scandinavia. Almeno questa fu la nostra personalissima esperienza.

Appena messo piede a terra, immediatamente ci rendemmo conto che avevamo azzeccato il giorno giusto. Era il 15 agosto e a Stoccolma si festeggiava la serata finale del Water Festival (in svedese Vattenfestivalen) la più pazza e divertente festa della capitale svedese! Non so se ai nostri giorni sia ancora così, ma allora, negli anni ‘90, la seconda settimana di agosto la città si trasformava completamente. In ogni angolo, in ogni piazzetta, veniva allestito un palco dove si poteva suonare, ascoltare, ballare musica di ogni genere. Migliaia di ragazzi e ragazze da tutta Europa si riunivano nel nome del sano divertimento con il nobile scopo di rendere onore all’acqua, l’elemento naturale senz’altro più presente a Stoccolma. La città, infatti, per certi versi può ricordare Amsterdam o Venezia, perchè giace su 14 isole, ma rispetto alla Serenissima è viva, giovane, intraprendente.

Ci deliziammo quella sera. Naturalmente come tutti i popoli nordici anche gli svedesi non si divertono se non sono sufficientemente saturi di birra, ma non assistemmo alle scene disgustose di Helsinki. Tutti erano allegri e molto espansivi, ma senza esagerazioni.

Le svedesi (finalmente!) furono molto intraprendenti e ci coinvolsero nelle loro danze, in pochi secondi entrammo anche noi nel vortice del divertimento. Io avevo la telecamera sempre con me e fu per loro un motivo in più per mettersi in mostra e scatenarsi a ballare distribuendo baci a chiunque fosse a tiro…

Ebbene sì, la nostra idea sulle ragazze svedesi fu pienamente confermata… Al ritmo degli svedesissimi Ace of Base con la loro famosa “All that she wants”, trascorremmo così tutta la notte e fummo veramente soddisfatti di come andò.

A fine serata lo spettacolo dei fuochi d’artificio che si specchiavano nell’acqua dei canali, fu l’ultima ciliegina su una torta memorabile.

Eravamo così eccitati quella sera, che la multa per divieto di sosta che trovammo sul parabrezza dell’auto non scalfì neanche lontanamente il nostro magico umore e la stracciammo senza pensarci due volte. Qualche mese  più tardi il papà di Massimo, proprietario dell’auto, ricevette una notifica strana scritta in svedese… non ho mai  saputo  se abbia mai capito che si trattasse di una multa e soprattutto se l’abbia mai pagata!

Copenhagen e Amsterdam

Da Stoccolma (Svezia) a Copenhagen (Danimarca)

Vivere la Festa dell’Acqua a Stoccolma ci appagò completamente. Ormai per noi il viaggio poteva ritenersi concluso. Passammo  quello che restava della notte ancora una volta in auto, in qualche area di servizio tra Stoccolma e Norrköping. Ci aspettavano ancora circa tre giorni di viaggio prima di poter dormire nel nostro letto di casa, eravamo piuttosto stanchi, ma eravamo pienamente soddisfatti di come era andata fino ad allora. L’unico pensiero che ci assillava: come rendere ancora interessante la rimanente parte del nostro epico viaggio? La mattina del 16 agosto puntammo decisi verso Copenhagen, rientrammo pertanto in Danimarca, prendendo ancora una volta il traghetto, da Helsingborg (Svezia) ad Helsingor  (Danimarca), e potemmo mettere un’altra bandierina nel nostro album dei ricordi. Andare a Copenhagen e non fare una foto con la statua della Sirenetta è un po’ come andare a Roma e non vedere il Colosseo o visitare Parigi e ignorare la Torre Eiffel. Malgrado fosse un’icona notissima, non fu semplicissimo trovarla e vederla da vicino ci sorprese comunque.

La Sirenetta a Copenhagen (Danimarca)

Non saprei come spiegare le nostre sensazioni, forse l’avevamo immaginata più grande, abituati alle grandi statue equestri delle nostre piazze principali. Invece era lì, a grandezza naturale o forse anche un po’ più piccola, sola e indifesa, tenerissima, come una qualsiasi bella teenager danese a prendere il sole in topless su uno scoglio del Mare del Nord. Entrò subito nelle nostre simpatie, se fosse stato possibile, ce la saremmo portata con noi, molto volentieri.

Fatto un rapido giro della bella città di Copenhagen, fummo colpiti dalla sua estrema pulizia, da alcuni scorci interessanti, malgrado sia una città moderna con un grande porto industriale, e dallo spettacolare cambio della guardia, davanti ai cancelli del Palazzo Reale “Amalienborg”.

Da Copenhagen (Danimarca) a Amsterdam (Olanda)

La nostra tappa successiva ci costrinse a deviare un po’ la rotta. Anche se eravamo completamente esausti, non riuscivamo a rinunciare a nulla. Ci chiedemmo: visto che ci troviamo, siamo arrivati fin quassù… perché non facciamo un salto anche ad Amsterdam? Detto, fatto. Arrivammo alla Venezia del Nord in tarda serata. Ormai non avevamo più né la voglia né le giuste energie per godere delle bellezze architettoniche, dei viali alberati, dei silenziosi canali. Avemmo soltanto la forza di farci un giro nel quartiere a luci rosse, tappa obbligata per soddisfare la curiosità di quattro scapoloni d’oro in gita di piacere. Effettivamente ne valse la pena, la caratteristica atmosfera di quei vicoli di perdizione è da provare, anche se venne spontaneo un sentimento  di pena e compassione nei confronti di quelle ragazzine, tutte giovanissime e in abiti succinti, esposte in vetrina come freddi manichini o bestie rare di uno zoo di periferia.

Fummo anche avvicinati da numerosi … “venditori di fumo” che letteralmente ci assalirono, appena si accorsero che eravamo italiani,  rivolgendosi a noi nella nostra lingua. Evidentemente gli italiani sono ottimi clienti da quelle parti.

Trovare una pensione o un ostello decente dove passare la notte, assorbì le ultime energie che ci restavano. Le nostre finanze erano ormai agli sgoccioli e l’atmosfera dei quartieri alla nostra portata non era per nulla raccomandabile. Non ricordo quale soluzione trovammo, ma sono sicuro che non pernottammo in un albergo a 5 stelle…

L'epilogo

Da Amsterdam (Olanda) a Torino (Italia)

L’ultimo tratto che restava da percorrere era ancora molto, troppo lungo. Visto che a quel tempo vivevo a  Torino  e, molto previdentemente, mi ero portato  appresso  le  chiavi del mio appartamentino, decidemmo di deviare ancora una volta il nostro itinerario. Così scendemmo lungo il confine tra Francia e Germania, in Alsazia, vedemmo Ginevra dall’alto ed arrivammo ad Aosta in serata. Ancora un piccolo sforzo e riuscimmo finalmente a mangiare, verso mezzanotte, un piatto di spaghetti aglio e olio a casa mia (ne ho  sempre tenuto qualche scorta nella mia dispensa) e ci riposammo in un comodissimo letto dopo tanti giorni di soluzioni a dir poco… arrangiate.

Così potemmo raderci, darci una bella rinfrescata e fare una bella impressione al nostro arrivo ad Ariano, la sera del 18 agosto. Fare tappa a Torino fu un’ottima pensata. Se i nostri parenti arianesi ci avessero visto in quali condizioni eravamo sbarcati in Piemonte la sera prima… si sarebbero presi un bello spavento!

Aosta (Italia)

Tirare le somme di un viaggio del genere non è facile. Credo che dal mio racconto sia emerso un certo spirito d’avventura, forse d’incoscienza, ma soprattutto spero che sia trasparso l’immenso patrimonio di ricordi, di immagini, di esperienze che ne abbiamo tratto. Quello fu il primo di tanti altri viaggi che intraprendemmo anche nelle estati successive, con lo stesso gruppo affiatato. Ogni volta ci divertimmo e furono sempre esperienze uniche e indimenticabili,  ma  mai riuscimmo ad eguagliare le emozioni provate la prima volta.

Se consigliarlo  può  sembrare scontato, mi azzarderei a suggerire proprio il nostro metodo, tutto in auto o meglio in camper, e soprattutto il nostro spirito.

L’epoca che stiamo vivendo in questi giorni ci permette di raggiungere in breve tempo mete che un tempo erano inavvicinabili, prima di intraprendere un viaggio possiamo vedere in anticipo i luoghi, leggere migliaia di recinsioni, scegliere tutto a priori e soprattutto evitare (quasi sempre) brutte sorprese. Tuttavia, per gustare fino in fondo certe esperienze, per provare certe emozioni, occorre vivere ogni istante della vita, ogni chilometro del nostro percorso, come se fosse il più importante, il capitolo principale del libro della nostra storia. Non importa se a volte potremo imbatterci in brutte sorprese, se torneremo stanchi distrutti e con il portafoglio vuoto, ma l'adrelanina che avremo tirato fuori quando saremo andati a occhi chiusi verso l'ignoto, ci avrà senz'altro ripagati di qualsiasi possibile, eventuale, cattiva esperienza e ci arricchirà in maniera superlativa.

Il nostro unico errore, se così si può chiamare, fu solo quello di andare troppo di fretta, tante splendide città furono soltanto sfiorate dal nostro  cammino. Del resto percorrere quasi 11.000 km in 11 giorni è un tour-de-force particolare, quasi un record. Ma noi ne fummo pienamente coscienti, lo considerammo una sorta di “viaggio di perlustrazione” per individuare quali città fossero veramente meritevoli di essere visitate. Ci impegnammo a  prendere nota per  tornarci, un giorno, con più attenzione e maggiore calma, anche se probabilmente con compagni di viaggio diversi.

Da allora, infatti, città come Amsterdam o Stoccolma le ho riviste più attentamente, in un’altra stagione, di giorno, ho avuto l’opportunità di visitare alcuni musei splendidi (mi vengono ancora i brividi al ricordo delle emozioni provate nel Museo di Van Gogh e nel Rijksmuseum), ma forse, se non ci fossi già stato in quella occasione, non avrei dato  loro  la giusta importanza e soprattutto la possibilità di una seconda chance.

Nessun libro di storia o di geografia può insegnare tanto quanto un viaggio fatto bene. Naturalmente il nostro, più che un viaggio fu una scommessa, una sfida con noi stessi, ma col passare dei giorni ci rendemmo conto che il vero obiettivo raggiunto non era stato Capo Nord, ma il viaggio stesso, le migliaia di paesaggi, di aneddoti, di storie di persone incontrate per caso.

Tutto quello che abbiamo visto ci ha arricchito in una maniera straordinaria e la dimostrazione è che a distanza ormai di trent'anni, malgrado le nostre vite abbiano intrapreso percorsi diversi, al ricordo di quegli undici giorni, ancora nei nostri occhi si accende una luce particolare e scattano sensazioni uniche di complicità e amicizia sincera.

Ultima foto ricordo, saluti a tutti da Capo Nord!